Qual è dunque quel numero che, moltiplicato per sé stesso, da -1?





Poiché sappiamo dalla scuola che, moltiplicando due numeri dello stesso segno, si ottiene  un numero positivo, l’unica risposta è che non c’è risposta.





Il matematico non sempre si accontenta: anzi, solitamente non lo fa mai. Il matematico è una persona talmente fastidiosa che se gli si dice bianco, dubiterà che sia bianco finché non avrà la prova inoppugnabile che sia bianco.





In verità è un requisito imperativo della sua scienza. 





La matematica è l’unica scienza che è sopravvissuta alla prova del tempo senza sostanziali scossoni, cosa che non si può dire di altre discipline.





La fisica, per esempio, ha avuto una storia nel XX secolo molto più movimentata, la relatività prima e la meccanica quantistica poi hanno fatto capire che tutti i secoli di studio precedenti erano sostanzialmente incompleti - se pur non del tutto errati - e che la nostra visione del mondo funzionava fino ad un certo punto. Un concetto semplice come il tempo si è dimostrato non così semplice quando, accelerando il nostro moto a velocità comparabili a quelle della luce, esso si dilata provocando paradossi sorprendenti. Questo perché la scienza da sempre si spinge oltre i confini dell’esperienza quotidiana.





Se gli esperimenti dimostrano che la teoria della relatività è (sostanzialmente) esatta, tuttavia non siamo ancora certi al 100% che non vi possa essere un’altra, sorprendente scoperta che la perfezionino ulteriormente.





Questo eterno dubbio non c’è con la matematica, il teorema di Pitagora sarà sempre valido, nonostante sia stato formulato 3000 anni fa.





Certo anche la matematica ha avuto i suoi scossoni, con Godel e la sua incompletezza del sistema matematico. Ma quel che è dimostrato rigorosamente è scritto su tavole indissolubili, per l’eternità, almeno finché gli assiomi e i principî che abbiamo stabilito saranno ancora validi. E poiché gli assiomi sono tali, cioè decisi d’autorità, non c’è pericolo che si dimostrino non più validi: al massimo si potranno cambiare altrettanto d’autorità, così come è già stato fatto, inventando nuovi tipi di sistemi matematici. La geometria che impariamo a scuola è detta “[Euclidea](http://it.wikipedia.org/wiki/Geometria_euclidea)” (perché parte da 5 postulati definiti (ancora, 2300 anni fa) da [Euclide](http://it.wikipedia.org/wiki/Euclide) () , ma nulla vieta di invalidarne o cambiarne uno o più ed ottenere una geometria differente, ad esempio, una geometria iperbolica ([Geometria iperbolica](http://it.wikipedia.org/wiki/Geometria_iperbolica)).





Dunque il matematico non si fermò a dire semplicemente “non c’è risposta”. Cominciò a cercarla, ad inventarla, se necessario.





Il problema in realtà era più stringente. Da tempo si cercavano delle formule per risolvere le equazioni di terzo grado, e il matematico Tartaglia ne aveva trovata una che sembrava assai promettente. Il problema è che in essa compariva frequentemente la radice quadrata di -1. Per molti matematici si trattava di un assurdo, di un escamotage. Infatti questi numeri furono osteggiati, come al pari furono osteggiati anche i numeri negativi.





Ma pian piano ci si rese conto che quei numeri, definiti immaginari, avevano consistenza reale, realissima.





Innanzitutto, fu data una rappresentazione visiva. Se i numeri reali possono essere visti allineati su una retta, in cui, come detto, i numeri interi costituiscono dei punti isolati e distanziati costantemente mentre i numeri reali (razionale e irrazionali) fanno da tappabuchi tra essi, spostandosi “lateralmente” da questa retta si vanno ad incontrare tutti i numeri, che a questo punto vennero definiti “complessi” e di cui i fu detta “unità immaginaria”.





Pertanto ora il campo dei numeri non è più una semplice retta, ma un intero piano. Ecco che i numeri complessi acquistano intuitività.





Ma quest’invenzione risolse moltissimi altri problemi. Non solo era possibile trovare la radice quadrata dei numeri negativi, semplicemente ruotando sul piano di archi di cerchio, ma si scoprì che in questo modo qualunque equazione polinomiale (quelle con la sola incognita x elevata al più in qualche ordine di potenza) aveva un numero fisso di soluzioni, pari al termine più alto. Pertanto le equazioni di secondo grado hanno sempre due soluzioni, quelle di terzo tre, quelle di ordine 100 un ugual numero di soluzioni.





Non solo, quel piano complesso divenne il “campo giochi” di tutti i matematici moderni. Si scoprì che lavorare su quel piano poteva risolvere un sacco di problemi ancora irrisolti sulla retta dei reali, problemi tangibili, tangibilissimi.





E’ per noi naturale per esempio utilizzando lo stereo, guardare lo spettro del segnale, quelle colonne che si illuminano quando una frequenza della musica è più o meno alta. Una musica sinfonica, per esempio, illumina alla grande tutte le lucine dello stereo, mentre un assolo di violino solo quelle centrali, e il rimbombo delle percussioni solo quelle più a sinistra.





L’analisi spettrale è possibile solo perché è possibile passare attraverso il campo dei numeri complessi, con una serie di operazioni su funzioni basate sull’unità immaginaria.





La trigonometria, quella branca della matematica e della geometria che studia i rapporti tra angoli, archi di cerchio e rette, è tanto strettamente correlata ai numeri complessi che le stesse funzioni basilari, seni e coseni, hanno uno sviluppo in termini di numeri complessi ma allo stesso modo un numero complesso può essere espresso come somma e prodotto di numeri reali e risultati di seni e coseni. Del resto, essendo un numero complesso un punto su un piano, perché non esprimere la sua posizione come distanza e direzione rispetto un centro?





Appare quindi difficile pensare che i numeri complessi siano semplicemente l’invenzione di una soluzione ad un problema. Un’invenzione è artificiosa, ma scoprire correlazioni in tutti gli altri aspetti dello scibile fa pensare più alla scoperta.





Chi può dire dove sta la realtà? E’ questo il bello della matematica. Le più grandi teorie non sembrano essere inventate, ma estratte da un mondo superiore, metafisico, quasi che chi studia questo mondo attinga direttamente all’intima essenza dell’universo.





Mi interesso di matematica da sempre. Una mia amica mi fece notare tempo fa che in quinta elementare tenni una lezione ai miei compagni sulle radici quadrate. Non credo le avessi capite a fondo, ma ricordo che rimanevo affascinato davanti a quei simboli strani, a quei concetti lontanissimi dal nostro tangibile quotidiano. Ricordo che lessi dei numeri complessi su un libro, “i segreti dei numeri” o qualcosa del genere, e quel desiderio di capirli mi assillò fino all’università. Mi sembrava di essere all’inizio di un ponte sospeso che si immergeva nella nebbia. Probabilmente è qualcosa del genere.





Musil ne “I turbamenti del giovane Törless”, scrive:





 





“i_n un calcolo del genere, tu all’inizio hai dei numeri solidissimi, in grado di quantificare metri, pesi o qualsiasi altro oggetto concreto, comunque numeri reali. Alla fine del calcolo, lo stesso. Ma l’inizio e la fine sono tenuti insieme da qualcosa che non c’è. Non è un po’ come un ponte che consti soltanto dei piloni iniziali e finali, e sul quale tuttavia si cammina sicuri come se fosse intero? Un calcolo del genere mi dà il capogiro; come se un pezzo del cammino andasse Dio sa dove. Ma la cosa davvero inquietante per me è la forza insita in questi calcoli, una forza capace di sorreggerti fino a farti arrivare felicemente dall’altra parte_”.