Il paesino di Rutorbòl esiste davvero. E’ davvero un paesino molto piccolo, anzi, una frazione, del comune di Val di Zoldo. Secondo una statistica che ho trovato in rete, la popolazione residente è di 43 abitanti, di cui 24 maschi e 19 femmine; 18 individui sono celibi o nubili, 20 coniugati e nessuno è separato o divorziato. Non ci sono stranieri residenti. Come si vede, è un paese che segue decisamente le tradizioni.

 

Ricordo benissimo e con malcelata malinconia i giorni di vacanza da scuola trascorsi con mio nonno nella sua fattoria in quel paesino del Cadore, un gruppuscolo di quattro case che prendeva il nome di Rutorbòl.

Rutorbòl era un paesino anonimo neanche segnato sulle carte. Paesino… Anche meno. C’era la fattoria di mio nonno, appunto, la vicina di casa petulante che faceva gli occhi dolci al giovane parroco che di tanto in tanto passava a dir messa nella pieve, la famiglia di Tobia, mio coetaneo, e la sua sorellina Marta, e quattro altre case di vecchi cui d’estate andavamo a rubare le zucchine dall’orto e la frutta dagli alberi.

Rutorbòl era questo, un agglomerato di case noioso e anonimo.

Ma, scoprii poi, era qualcosa di più.

Tutti sospettavano qualcosa da tempo, perché c’era quello strano viavai di macchinone e di gente strana, con vestiti eleganti e stravaganti, a tutte le ore del giorno e della notte e in tutte le stagioni dell’anno, che nessuno sapeva spiegare.

Tuttavia era proprio questo giro di persone strane, con queste macchinone vistose e questi vestiti fantasiosi, sempre accompagnati da donne decisamente appariscenti, che portava un certo benessere al paesino e dunque nessuno faceva domande.

Queste macchinone comparivano all’improvviso da dietro il capannone dismesso della ditta di Tomà, un coetaneo di mio nonno che aveva vissuto un’esistenza anonima per quasi tutta la vita e poi, d’improvviso, aveva preso armi e bagagli e si era trasferito a Cortina. Così, d’amblé.

Si dice che avesse venduto il terreno a una multinazionale, che aveva offerto un’ insensata quantità di danaro per quel fazzoletto di terra. Compare Umbrico aveva provato a insinuarsi nell’affare, offrendo a ribasso il suo, di terreno, ma niente. La multinazionale, rappresentata da due uomini d’affari grandi e grossi, vestiti di nero con gli occhiali a specchio anche all’interno, aveva rifiutato il terreno di Umbrico sebbene fosse più grande, meglio esposto, servito direttamente dalla statale che portava a Longarone, e di lì in pianura. Avevano preferito il terreno di Tomà, spelacchiato e con quel capannone fatiscente. Persino con quel bozzo del terreno dietro il capannone, bozzo senza senso, una sorta di bolla o bubbone persino un po’ inquietante.

Umbrico non gliel’aveva mica perdonata, dopo qualche anno tentò di vendicarsi cercando di dare fuoco al capannone, ma riuscì solamente a dar fuoco a se stesso e a scampare per miracolo alla morte per ustione. Ne fu così scosso e scioccato che non fu più lo stesso. Ogni tanto mormorava qualcosa di lucertoloni e mute, ma nessuno lo prendeva sul serio.

E dunque in quegli anni iniziarono quegli strani viavai di persone strane con macchinone strane e donne strane. Ma dovettero passare alcuni anni prima che scoprissimo la verità.

Fu dunque per noia che Tobia, Marta e io, rovinammo tutto.

Da circa 8 anni la vita a Rutorbòl aveva preso una svolta inaspettata; il viavai di macchinone e gente strana aveva portato con sé una certa ricchezza. Il distributore di benzina di sior Carlotto così come la cadente locanda della Pina erano diventati sosta obbligata di questi uomini e donne strane a bordo di queste macchinone strane. Arrivavano dalla svolta dietro il capannone e si fermavano al distributore di Carlotto, chiedevano il pieno – e a giudicare dal conto arrivavano decisamente a secco e riempivano enormi serbatoi di super – e, mentre Carlotto o il figlio Berto provvedevano, facevano il pieno di rosso dalla Pina. Ripartivano e, dopo qualche giorno o anche una settimana, tornavano, si fermavano a fare il pieno dalla Pina, e poi sparivano di nuovo dietro il capannone.

Un pomeriggio, annoiati, decidemmo di entrare nel terreno che era stato di Tomà per scoprire cosa c’era dietro quel benedetto angolo del capannone. Qualcosa infatti non ci tornava, ma a ogni domanda che facevamo agli adulti del luogo, la risposta era vaga e infastidita, come se a nessuno interessasse più di tanto capire come stessero davvero le cose. Era un po’ come se per gli adulti fosse assolutamente normale , o peggio, ovvio, dove portasse quella svolta della strada; anzi, era una domanda talmente ovvia che sembrava persino vizioso soffermarsi a riflettere sulla risposta.

Fu così che, con molta disinvoltura e notevole incoscienza, ci infilammo nel baule di una di quelle strane auto che, tornando dal giro chissà dove, si era fermata a fare il secondo pieno dalla Pina, e fummo trasportati dietro l’angolo del capannone.

Pochi minuti dopo l’auto si fermò e udimmo la voce dello strano uomo discutere con qualcuno a proposito di documenti. Decidemmo di scendere, ma la nostra intrusione non passò affatto inosservata. Una guardia giurata uscì da un baracchino e ci fermò subito.

Non facemmo neppure in tempo a osservare in giro. Eppure la vista dietro il capannone era decisamente bizzarra. Un’immensa torre a spirale svettava verso il cielo, più alta delle nubi, a perdita d’occhio.

La torre era decisamente grande, impossibile non scorgerla dal Centro di Rutorbòl, probabilmente era visibile persino dal centro di Cortina, tanto svettava nell’aria. Eppure…

Lo choc era tale che la guardia giurata ci prese per la collottola. – Che diavolo ci fate voi qui? Chi vi ha dato il permesso di entrare?

Marta e Tobia tremavano e balbettavano. – Ci siamo infilati, signore, eravamo solo curiosi. Cos’è quella cosa? – chiesi indicando la torre e cercando di sviare il discorso.

– Ah, l’ascensore? Beh, è quello che dice il nome, un ascensore. – rispose la guardia con semplicità.

– Un ascensore… Per dove?

– Per l’orbita. Non vorrete mica che le astronavi intersistema atterrino direttamente sul terreno? Il paese verrebbe incenerito dai motori a fusione.

– Non credo di aver capito – interloquì Tobia, ripresosi dallo choc.

– E che c’è da capire? – sbuffò la guardia. – Non mi fate perder tempo, ragazzi. Mica vi posso spiegare tutto. Per fortuna vi ho fermato prima che attraversaste la frontiera, altrimenti sì che sarebbe stato un bel problema. La multa è di 6000 slick, e un umano ci mette una vita intera per guadagnare 1 singolo slick.

– Cosa cosa cosa? – chiesi io, che avevo la passione per la contabilità.

– Uno slick – spiegò la guardia paziente. – Sono le monete usate al di fuori del sistema solare. Vedete, questi turisti vengono qui sulla terra per apprezzare principalmente la vostra cucina, ma anche per i vostri articoli di lusso, orologi, opere d’arte, abbigliamento di marca. Il made in Italy è particolarmente ricercato al di fuori dell’orbita terrestre. Arrivano da ovunque, cambiano il loro oro in moneta locale e acquistano i vostri beni. L’oro non è un problema fuori dall’orbita, si acquista in abbondanza per pochi slick, l’unico problema è che non possiamo portarne troppo per non farne crollare il valore visto che voi umani sembrate apprezzarlo così tanto. E poi darebbe nell’occhio…

La guardia si grattò il naso, guardò l’orologio, sbatté delle palpebre nittitanti, e si affrettò ad aggiungere: – scusate davvero, ora vi dovrei riaccompagnare fuori. Oltre tutto i signori lì dovrebbero cambiarsi… –

Si interruppe e si volse verso i due dell’auto, uomo e donna, che si erano spogliati completamente dei vestiti: – Scusate signori, potreste attendere un attimo: ci sono dei minori…

Troppo tardi. La donna si era ormai tolta la pelle e strane scaglie verde azzurre luccicavano alla luce del sole, mentre la rosacea epidermide umana scendeva come un vestito vecchio ai suoi piedi.

Marta strillò e svenne.

– Dannazione – disse la guardia, imbarazzata. – Immagino chiedervi di non parlare con nessuno sia inutile, no?

Qualche ora più tardi eravamo nuovamente a casa, ma la raccomandazione di non fare parola fu inutile: Marta era davvero molto impaurita e ne parlò con la madre, che in ansia insistette col marito e con la perpetua del curato e con la moglie del brigadiere perché si facesse qualcosa. In breve tutto il paese e il comune di Forni di Zoldo seppe che degli stranieri avevano tentato di abusare di alcuni minori, o comunque che avevano portato delle abitudini davvero molto poco perbene, e che quel viavai di gente davvero strana era davvero fuori luogo, lì, in quel paese di persone perbene, una vera minaccia per le tradizioni locali.

E dunque in men che non si dica una cospicua quantità di persone davvero incazzate si ritrovò davanti al capannone di Tomà, protestando e inveendo e intimando agli stranieri di portare il loro strano e inappropriato culo fuori dall’orbita, senza indugio.

Gli alieni impacchettarono la loro torre, il loro capannone, la loro anomalia gravimetrica, che fungeva da catalizzatore di campo rendendo l’ascensore invisibile, i loro slick e la loro ricchezza, e lasciarono l’orbita terrestre, in ossequio al loro principio morale per cui non c’è lusso che valga quanto dei pacifici rapporti di buon vicinato.

Quel giorno, Rutorbòl tornò ad essere quel tranquillo e depresso paese del Cadore. Per le strade, ancora oggi Umbrico sghignazza guardando il cielo, e nella locanda dalla Pina si racconta di quando i Rutorbolesi han fatto il culo agli alieni. È costato un po’ in termini di benessere, ma vuoi mettere la soddisfazione?